Sono davvero soddisfatta di questo terzo posto della nazionale italiana al mondiale di calcio. Adesso, però, parliamo della nazionale di calcio di cui frega qualcosa a qualcuno: quella maschile.

Come ben si sa, siamo riusciti a perdere anche contro nazionali che manco si trovano a PES.  Tuttavia non starò lì a polemizzare sul fatto che forse il calcio ci piace un filino troppo, tanto che ci sono città dalla notoria qualità della vita (come Catania) in cui la gente non scende in piazza contro il pizzo, ma perché la squadra locale è retrocessa in serie B. È assodato che il calcio è ormai per eccellenza il più grande fenomeno di rincoglionimento collettivo mai visto, roba da fare impallidire il successo delle magliettine rosa per uomo o il 40% del Pd alle europee. D’altronde si potrebbe dire che c’è la stessa atmosfera da fine dell’universo o da prova costume quando si gioca Italia-Germania di pallamano? O Argentina-Brasile di scopone scientifico?

Quello che in questa sede voglio chiedermi, invece, è da dove nasca tutto questa parossistico slancio di passione. No, non è che un gol annullato per fuorigioco sia ontologicamente più esaltante di chi ha sparato a JR. Il fatto è che il mondiale di calcio è diventato una sorta di erezione mancata globalizzata: un evento che preso a sé, magari, non vuole dire nulla, ma dentro il quale riversiamo qualsiasi tipo di significato. Con questo però non voglio dire che d’ora in poi le eventuali sconfitte della nazionale, magari contro irresistibili squadroni come la Lituania o il Regno della Luna, vadano attribuite ad una madre oppressiva o ai problemi con i colleghi in ufficio.

Diciamo invece che il mondiale di calcio è il secchio dentro cui l’umanità ha vomitato tutta la sua sana voglia di appartenere ad una razza superiore e di potere calpestare tutto il resto del mondo.  Ormai, infatti, viviamo in un mondo pacificato, unificato, amorificato. Ça va sans dire che il pianeta a cui faccio riferimento è quello raggiunto dalle offerte Ryanair. Un mondo in cui i confini non si invadono, ma si abbattono, e dove i popoli sono fatti per essere abbracciati, non infornati.

Eppure, fino a poco tempo fa, non eravamo così caramellosi. Se ricordate bene, un tempo conquistare il mondo non era solo lo scopo dei cattivi dei cartoni, o il testo delle mie lettere a Babbo Natale, ma era la base delle relazioni internazionali. Essere superiori un tempo non si dimostrava evitando di bruciare casa del proprio ex alla fine di una storia, ma sottomettendo popoli e distruggendo civiltà precolombiane a caso. Il problema è che alla fine continuare a dare adito a questo sistema di valori stava diventando come Lost: insostenibile. Voglio dire, la Guerra dei Cent’anni si finì grazie a Santa Caterina, Santa Margherita e all’Arcangelo Gabriele che facevano salotto nella testa di Giovanna d’Arco; la Seconda Guerra Mondiale grazie a due ordigni nucleari. Come rimediare al sempre più pesante carico di morti, distruzione e romanzi di Hemingway? Così si capì che solo la cooperazione, il dialogo tra popoli e la trasparenza nelle relazioni internazionali avrebbero potuto preservarci dalla follia.

Tuttavia era credibile pensare che, dopo secoli e secoli, gli esseri umani si fossero redenti tutto d’un tratto? Ovviamente no, semplicemente si è capito che per sublimare l’odio ancestrale tra i popoli, nonché legittimare sentimenti di onnipotenza razziali, era molto più efficace il calcio. Fate caso ai toni epico-cavallereschi che accompagnano le partite delle nazionali: undici leoni sul campo (senza mai specificare quale tipo di campo), in alto i vessili, la Patria unita attorno ai suoi eroi… Per non parlare poi del delirio di retorica patriottica che accompagna la vittoria di un titolo mondiale, degno di un cinegiornale dell’Istituto Luce. Insomma, ma per quanti anni ci siamo bevuti la cazzata giornalistica che l’Italia uscì dalla crisi degli anni settanta grazie alla vittoria del mondiale dell’82? Se uscimmo da quella crisi fu perché un barile di petrolio costava dieci dollari. Abbiamo dovuto vincerne un altro di mondiale, nel 2006, per renderci conto che dopo avere alzato la coppa le cose possono anche andare peggio di così.

Comunque sia, no, signori miei, il mondiale non è solo una manifestazione sportiva, è una dimensione parallela dove sfogare tutto il peggio di noi che quattro anni di pace, amore e fantasia hanno represso come una pentola a pressione.

Nello stadio o davanti allo schermo, finalmente, ci è concesso desiderare l’annientamento delle altre nazioni in campo senza essere giudicati; aneliamo con tutto il cuore di alzare la coppa del mondo per avere, una volta tanto, la gioia di sentirsi una razza suprema senza che qualche cretinetta con le birkenstock ci ricordi che tutti gli uomini sono uguali. Suvvia, come si fa a non vedere il così chiaro legame che c’è tra guerra e pallone? Francia e Germania si sono sfidate in continuazione a partire dal 1871 per vedere alla fine chi vinceva l’Alsazia e la Lorena. L’Argentina ha pareggiato i conti con l’Inghilterra per la perdita delle Falkland nel 1983, certo non architettando atroci ritorsioni contro il popolo della fredda Albione come, non so, un bombardamento dell’Irlanda del Nord o organizzando il matrimonio tra Carlo e Camilla. Bastò un gol di mano di Maradona nel 1986 per distruggere e umiliare gli inglesi nei secoli dei secoli. Per non parlare del profluvio di insulti che intercorrono tra giornali tedeschi e italiani ogni volta che ci si sfida sul campo da gioco: praticamente tutto quello che non siamo riusciti a farci e a dirci nel ’44, o tutto quello che gli italiani emigrati vorrebbero sputare in faccia ai loro datori di lavoro tedeschi, e viceversa. Ma perché fare dei pogrom, vietare l’ingresso al bar ai cani e ai tedeschi, o stringere sante alleanze in funzione anti prussiana con Isabella di Castiglia quando bastano novanta minuti di gioco per vedere sciolto nella disperazione più nera il proprio nemico e sentirci invece noi, e solamente noi, gli assoluti detentori della superiorità razziale alla faccia di tutto il resto del mondo?

Dato che siamo in un’epoca di guerre continue, vorrei dunque estendere questo mio ragionamento una volta tanto per fare una proposta costruttiva: e se sostituissimo gli eserciti con le partite di calcio per risolvere le tensioni internazionali? Per esempio fare una partita Ucraina-Russia, che ne pensate? Anche se il rischio è che mezza squadra ucraina si infili nello spogliatoio con i russi per resistere all’orda imperialistico-omosessuale europea. Oppure non so, risolviamo la guerra in Congo con una partita tra le varie fazioni in campo: però stavolta il rischio è che tutti i ventidue giocatori in campo comincino a scannarsi tra di loro per fottersi il pallone e rivenderlo alle multinazionali occidentali. Dai, facciamo una bella partita Israele-Palestina.

Certo magari dite agli israeliani che non pretendano di giocare in undici contro tre partendo con sei gol di vantaggio: magari questa sfida facciamola ad armi pari una volta tanto.

[artwork by aMusoDuro]